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Carlo Di Giusto, ex CT della nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina (Fonte: Olimpo Press) |
L'ex atleta ed ex Commissario Tecnico della Nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina: " ricordare da dove parte tutto il percorso che ha portato il Santa Lucia ad essere una struttura d’eccellenza"
Carlo Di Giusto nell’atletica leggera si è specializzato nei
lanci, vincendo la medaglia di bronzo alle VII Giochi Paralimpici estivi del
1984 a Stoke Mandeville (Regno Unito) nel lancio del disco. Nella pallacanestro
in carrozzina vince lo scudetto per la prima volta nel 1981 per il Santa Lucia
Sport. Con la prima squadra ha vinto 21 titoli italiani, 12 Coppe Italia, 5
supercoppe, 3 Coppe dei Campioni e 3 Vergauwen Cup, con la squadra giovanile 2
scudetti e 3 supercoppe.Da giugno del 2002 a settembre del 2007 è stato Commissario
tecnico della nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina, che ha
conquistato il titolo europeo nel 2003 e 2005 e un sesto posto alle
Paralimpiadi di Atene 2004 ed un ottavo posto ai Campionati del mondo del 2006
ad Amsterdam. Un personaggio simbolo per lo sport delle persone con disabilità
e della società sportiva Santa Lucia di Roma. Ancor prima di questo, un uomo
che ha trovato dignità e determinazione nella vita anche grazie alla
riabilitazione inserita in un processo clinico-scientifico di recupero e non
solo funzionale. In questo la Fondazione Santa Lucia Irccs non ha rivali in
Italia.
Sei un atleta pluri-medagliato e un punto di riferimento per
lo sport inteso come attività non solo
riabilitativa ma anche di inclusione sociale e relazionale. Un racconto del tuo
impegno come responsabile della squadra di Serie A e commissario tecnico della
nazionale di basket in carrozzina. Cosa ti ha motivato, in origine, ad
impegnarti in prima persona nello sport visto anche come riscatto e promozione
dei diritti delle persone con disabilità?
La mia storia da disabile inizia nel 1956, quando fui
“colpito” dalla poliomielite all’arto inferiore destro. La poliomielite, come
si sa, è una malattia virale che ha avuto un impatto sociale drammatico; grazie
alle vaccinazioni è scomparsa almeno in occidente. Poliomielite era un nome che
faceva paura. Il picco dell’epidemia negli Stati Uniti fu raggiunto nel 1952,
con quasi 58.000 casi; in Italia nel 1955 con oltre 8.000 paralisi. A un certo
punto, agli inizi degli anni Cinquanta, in alcuni paesi – come la Svezia – il
virus della polio era il più spietato killer dell’infanzia: un bambino su
cinque moriva a causa dell’infezione. Io posso ritenermi fortunato visto che la
mia spinta all’autonomia è stata sempre fondamentale nel superare qualsiasi
tipo di ostacolo eccetto…la possibilità di partecipare nel mio percorso
scolastico alle lezioni di educazione fisica. Questo mi creava disagio e
isolamento perché osservavo gli altri ragazzini fare quello che la mia mente,
ma il mio corpo no, desiderava fare. Ora da adulto posso certamente affermare
che le riflessioni fatte da bambino mentre vivevo la malattia con gli schemi
mentali che un bambino, pur col sostegno della famiglia, applica alla realtà di
quello che accade, sia stata la spinta maggiore a tirare fuori la
determinazione che mi ha portato a vivere serenamente. Successivamente, una
volta conosciuta la professionalità dei medici e di tutto il personale
dell’Ospedale Santa Lucia di Roma, attraverso gli sport paralimpici, ho capito
che dentro di me avevo tutte le carte da giocare per potermi impegnare prima
come atleta, e poi come allenatore e formatore. La parte della formazione e
dell’allenamento è forse quella che mi è più a cuore, al di là di tutte le
medaglie e le coppe che il mio percorso atletico ha collezionato negli anni.
Avere la possibilità di divulgare la possibilità di fare sport per le persone
con disabilità, di tirare fuori la tenacia e le abilità a delle persone che –
in alcune fasi difficili pensano che tutto
sia perduto e che non avranno mai la possibilità di sentire di farcela…i loro
successi e i loro sorrisi sono le vere medaglie che, come uomo, credo di aver
conquistato.
Un tuo ricordo personale, se ritieni e se ti va, che ti lega
al primo incontro con le terapie riabilitative di eccellenza del Santa Lucia.
Il mio percorso nell’Ospedale Santa Lucia inizia nel 1980 e
inizia direttamente come atleta della squadra di basket e di tante altre
discipline. Questo perché, per noi invalidi civili che avevamo conseguito la
disabilità non da un evento traumatico ma da una malattia, all’epoca non
esisteva la possibilità di accedere a percorsi riabilitativi intesi nel senso
sanitario della parola. Accedere attraverso lo sport si riusciva ad accedere ad
un percorso di Sport/terapia che rappresentava una riabilitazione motoria ma
anche e soprattutto un’inclusione sociale e relazionale, saltando gli orpelli
burocratici dei tempi di attesa. Anche in questo il Santa Lucia è stato
veramente un pioniere.
C’è ancora moltissimo da fare per il riconoscimento al
diritto di cura delle persone con disabilità. Un diritto che per la vicenda del
Santa Lucia ora è sotto attacco. Sai immaginare e descrivere cosa accadrebbe,
nella vita dei malati e dei loro familiari, se il Santa Lucia da “Istituto di
Ricovero e Cura a Carattere Scientifico” ed alta specializzazione venisse
declassato semplicemente a “Casa di Cura”? Quali sarebbero le
ripercussioni?
Da diversi anni ormai, si cerca di declassare il Santa Lucia
e tutto quello che sono riusciti a costruire il Dr. Luigi Amadio e la Sig.ra
Adriana Amadio. I problemi sono molteplici, ma credo che il nocciolo della
questione sia la qualità, non solo a livello riabilitativo, ma strutturale,
culturale, di crescita, sviluppo e ricerca scientifica rispetto a tutto il
mondo della riabilitazione. Questo crea malumore, sia a livello politico che a
livello di concorrenza, perché la qualità costa ed è giusto che costi; ma
questo permette poche speculazioni.
Se potessi dettare l’agenda regionale rispetto alle
decisioni da prendere sull’ospedale Santa Lucia, oltre (immagino) a batterti
per impedirne il declassamento, per quale settore di ricerca destineresti più
finanziamenti e perché.
Certamente tornerei a mettere il paziente al centro. Non
ritengo sia giusto fare distinzioni sulle patologie su chi necessita di un
percorso riabilitativo. Il paziente per poter affrontare la riabilitazione in
maniera globale, devo poter tornare ad avere fiducia e stima in sé stesso. Mi
batterei senz’altro anche per ricordare da dove parte tutto il percorso che ha
portato il Santa Lucia ad essere una struttura d’eccellenza, per dimostrare
quanto sarebbe fuori luogo il suo declassamento. L’ospedale Santa Lucia negli
anni Sessanta inizia la sua proposta e applicazione di metodi riabilitativi
sugli invalidi di guerra legati all’ONIG (Opera Nazionale Invalidi Guerra), per
proseguire ed ampliare in seguito le proprie tecniche riabilitative con
pazienti mielolesi, affetti da polio les autres, fino ad avere tra i suoi
assistiti amputati, postcomatosi, e persone affette da tante altre patologie
neurologiche gravi e gravissime. Purtroppo i tagli fatti dalla Ragione Lazio e
dallo stato centrale, hanno costretto la struttura a fare delle scelte
drastiche anche sui degenti da ricoverare. Ormai le patologie meno invalidanti
vengono declassate e vedono spesso i pazienti costretti a cure private o di
scarsa qualità. Dopo una lotta a suon di carte durata circa dieci anni che ha
portato all’accreditamento definitivo di più di 300 posti letto di alta
specialità neuroriabilitativa la Regione Lazio lo scorso anno ha deciso il
dimezzamento dei posti letto del Santa Lucia destinati alla neuroriabilitazione
per la cura di pazienti con esiti gravi di coma, ictus, lesioni del midollo
spinale e malattie neurodegenerative come sclerosi multipla e Parkinson,
destinando i restanti posti letto ad attività di riabilitazione motoria. E
questa credo sia una grande sconfitta per la sanità nazionale.
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