martedì 12 settembre 2017

Ospedale Santa Lucia, intervista a Carlo Di Giusto

Carlo Di Giusto, ex CT della nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina (Fonte: Olimpo Press)

L'ex atleta ed ex Commissario Tecnico della Nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina: " ricordare da dove parte tutto il percorso che ha portato il Santa Lucia ad essere una struttura d’eccellenza"

Carlo Di Giusto nell’atletica leggera si è specializzato nei lanci, vincendo la medaglia di bronzo alle VII Giochi Paralimpici estivi del 1984 a Stoke Mandeville (Regno Unito) nel lancio del disco. Nella pallacanestro in carrozzina vince lo scudetto per la prima volta nel 1981 per il Santa Lucia Sport. Con la prima squadra ha vinto 21 titoli italiani, 12 Coppe Italia, 5 supercoppe, 3 Coppe dei Campioni e 3 Vergauwen Cup, con la squadra giovanile 2 scudetti e 3 supercoppe.Da giugno del 2002 a settembre del 2007 è stato Commissario tecnico della nazionale italiana di pallacanestro in carrozzina, che ha conquistato il titolo europeo nel 2003 e 2005 e un sesto posto alle Paralimpiadi di Atene 2004 ed un ottavo posto ai Campionati del mondo del 2006 ad Amsterdam. Un personaggio simbolo per lo sport delle persone con disabilità e della società sportiva Santa Lucia di Roma. Ancor prima di questo, un uomo che ha trovato dignità e determinazione nella vita anche grazie alla riabilitazione inserita in un processo clinico-scientifico di recupero e non solo funzionale. In questo la Fondazione Santa Lucia Irccs non ha rivali in Italia.


Sei un atleta pluri-medagliato e un punto di riferimento per lo sport inteso  come attività non solo riabilitativa ma anche di inclusione sociale e relazionale. Un racconto del tuo impegno come responsabile della squadra di Serie A e commissario tecnico della nazionale di basket in carrozzina. Cosa ti ha motivato, in origine, ad impegnarti in prima persona nello sport visto anche come riscatto e promozione dei diritti delle persone con disabilità?

La mia storia da disabile inizia nel 1956, quando fui “colpito” dalla poliomielite all’arto inferiore destro. La poliomielite, come si sa, è una malattia virale che ha avuto un impatto sociale drammatico; grazie alle vaccinazioni è scomparsa almeno in occidente. Poliomielite era un nome che faceva paura. Il picco dell’epidemia negli Stati Uniti fu raggiunto nel 1952, con quasi 58.000 casi; in Italia nel 1955 con oltre 8.000 paralisi. A un certo punto, agli inizi degli anni Cinquanta, in alcuni paesi – come la Svezia – il virus della polio era il più spietato killer dell’infanzia: un bambino su cinque moriva a causa dell’infezione. Io posso ritenermi fortunato visto che la mia spinta all’autonomia è stata sempre fondamentale nel superare qualsiasi tipo di ostacolo eccetto…la possibilità di partecipare nel mio percorso scolastico alle lezioni di educazione fisica. Questo mi creava disagio e isolamento perché osservavo gli altri ragazzini fare quello che la mia mente, ma il mio corpo no, desiderava fare. Ora da adulto posso certamente affermare che le riflessioni fatte da bambino mentre vivevo la malattia con gli schemi mentali che un bambino, pur col sostegno della famiglia, applica alla realtà di quello che accade, sia stata la spinta maggiore a tirare fuori la determinazione che mi ha portato a vivere serenamente. Successivamente, una volta conosciuta la professionalità dei medici e di tutto il personale dell’Ospedale Santa Lucia di Roma, attraverso gli sport paralimpici, ho capito che dentro di me avevo tutte le carte da giocare per potermi impegnare prima come atleta, e poi come allenatore e formatore. La parte della formazione e dell’allenamento è forse quella che mi è più a cuore, al di là di tutte le medaglie e le coppe che il mio percorso atletico ha collezionato negli anni. Avere la possibilità di divulgare la possibilità di fare sport per le persone con disabilità, di tirare fuori la tenacia e le abilità a delle persone che – in alcune fasi difficili  pensano che tutto sia perduto e che non avranno mai la possibilità di sentire di farcela…i loro successi e i loro sorrisi sono le vere medaglie che, come uomo, credo di aver conquistato.

Un tuo ricordo personale, se ritieni e se ti va, che ti lega al primo incontro con le terapie riabilitative di eccellenza del Santa Lucia.
Il mio percorso nell’Ospedale Santa Lucia inizia nel 1980 e inizia direttamente come atleta della squadra di basket e di tante altre discipline. Questo perché, per noi invalidi civili che avevamo conseguito la disabilità non da un evento traumatico ma da una malattia, all’epoca non esisteva la possibilità di accedere a percorsi riabilitativi intesi nel senso sanitario della parola. Accedere attraverso lo sport si riusciva ad accedere ad un percorso di Sport/terapia che rappresentava una riabilitazione motoria ma anche e soprattutto un’inclusione sociale e relazionale, saltando gli orpelli burocratici dei tempi di attesa. Anche in questo il Santa Lucia è stato veramente un pioniere.

C’è ancora moltissimo da fare per il riconoscimento al diritto di cura delle persone con disabilità. Un diritto che per la vicenda del Santa Lucia ora è sotto attacco. Sai immaginare e descrivere cosa accadrebbe, nella vita dei malati e dei loro familiari, se il Santa Lucia da “Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico” ed alta specializzazione venisse declassato semplicemente a “Casa di Cura”? Quali sarebbero le ripercussioni? 
Da diversi anni ormai, si cerca di declassare il Santa Lucia e tutto quello che sono riusciti a costruire il Dr. Luigi Amadio e la Sig.ra Adriana Amadio. I problemi sono molteplici, ma credo che il nocciolo della questione sia la qualità, non solo a livello riabilitativo, ma strutturale, culturale, di crescita, sviluppo e ricerca scientifica rispetto a tutto il mondo della riabilitazione. Questo crea malumore, sia a livello politico che a livello di concorrenza, perché la qualità costa ed è giusto che costi; ma questo permette poche speculazioni.

Se potessi dettare l’agenda regionale rispetto alle decisioni da prendere sull’ospedale Santa Lucia, oltre (immagino) a batterti per impedirne il declassamento, per quale settore di ricerca destineresti più finanziamenti e perché.

Certamente tornerei a mettere il paziente al centro. Non ritengo sia giusto fare distinzioni sulle patologie su chi necessita di un percorso riabilitativo. Il paziente per poter affrontare la riabilitazione in maniera globale, devo poter tornare ad avere fiducia e stima in sé stesso. Mi batterei senz’altro anche per ricordare da dove parte tutto il percorso che ha portato il Santa Lucia ad essere una struttura d’eccellenza, per dimostrare quanto sarebbe fuori luogo il suo declassamento. L’ospedale Santa Lucia negli anni Sessanta inizia la sua proposta e applicazione di metodi riabilitativi sugli invalidi di guerra legati all’ONIG (Opera Nazionale Invalidi Guerra), per proseguire ed ampliare in seguito le proprie tecniche riabilitative con pazienti mielolesi, affetti da polio les autres, fino ad avere tra i suoi assistiti amputati, postcomatosi, e persone affette da tante altre patologie neurologiche gravi e gravissime. Purtroppo i tagli fatti dalla Ragione Lazio e dallo stato centrale, hanno costretto la struttura a fare delle scelte drastiche anche sui degenti da ricoverare. Ormai le patologie meno invalidanti vengono declassate e vedono spesso i pazienti costretti a cure private o di scarsa qualità. Dopo una lotta a suon di carte durata circa dieci anni che ha portato all’accreditamento definitivo di più di 300 posti letto di alta specialità neuroriabilitativa la Regione Lazio lo scorso anno ha deciso il dimezzamento dei posti letto del Santa Lucia destinati alla neuroriabilitazione per la cura di pazienti con esiti gravi di coma, ictus, lesioni del midollo spinale e malattie neurodegenerative come sclerosi multipla e Parkinson, destinando i restanti posti letto ad attività di riabilitazione motoria. E questa credo sia una grande sconfitta per la sanità nazionale.

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