venerdì 10 giugno 2011

LETTERA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO ITALIANO PARALIMPICO ALLA PRESIDENTE DELLA REGIONE LAZIO

Provo sensazioni particolari alla vigilia di due combattutissime partite che potrebbero regalare il 19° scudetto nella pallacanestro in carrozzina al Gruppo Sportivo Santa Lucia, espressione dell’omonima Fondazione e Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico. E non soltanto perché, comunque vada, per la società capitolina si tratterà della ventesima finale consecutiva, del trentunesimo podio su trentadue edizioni del massimo torneo nazionale, a cui vanno aggiunti i successi a livello internazionale, le vittorie della squadra di nuoto, i titoli nel tennis tavolo e nella scherma, compresi allori paralimpici e titoli mondiali ed europei e il continuo serbatoio fornito, in particolare, alla nazionale di pallacanestro in carrozzina. Penso, in particolare, al giovanissimo Luca Pancalli che, all’epoca 18enne, reduce da mesi di ricovero ad Innsbruck, prima struttura ad accogliermi dopo la lesione midollare riportata in Austria nel corso di una prova di pentathlon, si ritrovò alle prese con le prime gare di scherma e di nuoto proprio presso questo centro della via Ardeatina, deciso ad inseguire un sogno.

Dopo quasi trent’anni, venti dei quali trascorsi sui campi di gara di tutto il mondo, sempre fiero di onorare la Maglia Azzurra sia con le gambe che attraverso una carrozzina, ora dietro una scrivania come dirigente sportivo, mi ritrovo a cercare di comprendere come e perché, in un paese dove le eccellenze sono piuttosto rare, questa struttura rischi di chiudere le proprie porte ai tanti Luca Pancalli, arrivati dopo di me, anche loro portatori di un personale sogno nel cassetto. Non voglio entrare nelle dinamiche di carattere amministrativo-burocratico che hanno contraddistinto il contenzioso con la Regione Lazio, ma da presidente del Comitato Italiano Paralimpico e, soprattutto, da padre di due figli, non posso non rimanere perplesso su quanto sembra possa accadere. Questo eventuale titolo tricolore rischia di essere un triste canto del cigno, epilogo assurdo di una vicenda che rischia di mortificare decine anni di lavoro, di eccellenza in campo medico-scientifico e, per quanto mi riguarda, fonte inesauribile di talenti in ambito sportivo ma, soprattutto, primo avamposto per chiunque – e ribadisco chiunque – si trovi, nel corso della vita, ad affrontare una disabilità sopraggiunta, diretta ed indiretta.

Ho visto ragazzi giovanissimi travolti dall’entusiasmo per aver infilato il loro primo canestro, volti stravolti dalla fatica ma felici dopo aver toccato il bordo vasca al termine di mesi di allenamento. Da cittadino, da uomo di sport, non posso pensare che un sogno, questo sogno, possa spengersi in ragazze, ragazzi e nelle loro famiglie, le più compromesse nel caso di una chiusura della struttura. Amo vedere il bicchiere mezzo pieno, la mia vita è stata tutta un porsi continui obiettivi e, nel limite delle mie possibilità, raggiungerli.

Non cancelliamo una speranza, alimentiamo il desiderio di chi, attraverso lo sport, è in grado di tagliare il proprio traguardo. Lo dobbiamo ai nostri figli, alle generazioni che verranno. Lo dobbiamo ad uno sport che, per primo, ha abbattuto steccati e barriere. Facciamo in modo che quel ragazzo che ha varcato ieri la soglia, con la sua famiglia stretta a lui, possa ancora vivere il suo sogno. Ce lo chiede la vita. Ce lo chiede la nostra coscienza.

Luca Pancalli

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